martedì 10 maggio 2016

Colonie italiane in cerca di traduzione

A pochissime settimane dal mio trasferimento a Torino ho avuto la grande fortuna di conoscere Claudio Canal, giornalista, scrittore, ricercatore indipendente, regista e molto altro. In una delle varie occasioni, come spesso avviene con Claudio, in cui lui si mette a disposizione per condividere un po' della sua conoscenza con gli altri attraverso iniziative ed incontri, mi è capitato di fare una scoperta tanto serendipica quanto sconvolgententemente scontata: il colonialismo italiano esiste (e questo per fortuna ce lo hanno seppur in modo scarno raccontato i nostri libri di storia a scuola) e perciò esiste una letteratura coloniale ma soprattutto anti-coloniale. Il perché nessuno dei nostri libri di letteratura ce ne abbiano mai parlato... lo lascio a chi legge, che sarà abbastanza intelligente da capirlo da solo senza dover ricorrere a chissà quali teorie complottiste.
Colonie italiane in Africa

Quello che più mi ha colpito di questa storia è come dopo tanti anni e addirittura due belle tesi di laurea in studi culturali e postcoloniali inglesi, non mi sia mai minimamente posta la domanda dell'esistenza di qualcosa di simile riguardo il mio paese e il "mio" passato. A dimostrazione di quanto una censura fatta bene possa rendere anche una persona ben cosciente di queste problematiche completamente dimentica, ignara e noncurante (permettetemi il climax ridondante, e pure la rima).

La prima sensazione che ho provato è stata pura rabbia: ho dimenticato di pensare perché qualcuno non mi ha messo in condizione di farlo. Capiamoci bene, qui non parliamo di poetucoli, ma del primo romanzo della storia della letteratura eritrea e uno dei primi romanzi scritti in Africa. E io tutto quello che ricordo del colonialismo italiano dei miei giorni di scuola è sentire una prof molto stupida liquidare la faccenda con un "l'Italia ha colonizzato terre povere e desertiche in cui non c'è niente". Che questo niente fosse pieno di uomini e donne represse come in tutti i colonialismi, semplicemente non contava, perché l'Africa è deserto in tutti i sensi, quella tabula rasa, di cui parla molto bene Ania Loomba nel manuale Colonialism/Postcolonialism, su cui l'Europa può inscrivere le proprie istanze culturali e non solo. E' un concetto che nell'Italia hegeliana e crociana attecchisce così tanto da poter banalizzare tutto questo ancora negli anni 2000 con un "lì non c'era niente". E boom, cervello spento per sempre a milioni di studenti.

L'occasione di scrivere in questo blog viene dal fatto che Claudio stesso ne ha scritto nel suo (qui il suo post). Si tratta di un articolo inedito presentato a un paio di giornali che guardacaso hanno ben poco apprezzato. In particolar modo l'articolo parla di quello che si può considerare una delle opere più importanti della letteratura anticoloniale italiana, un romanzo eritreo del 1927 scritto in lingua tigrina da Gebreyesus Hailu dal titolo Una Storia - Hade Zanta.

La cosa curiosa è che mentre il romanzo è non solo inedito ma oserei dire sconosciuto in Italia, lo stesso sia tradotto in inglese da Ghirmai Negash, un professore di studi postcoloniali africani dell'università dell'Ohio, con il titolo The Conscript. Il volume è facilmente acquistabile per Kindle su Amazon non solo con pochi clic ma anche per pochissimi spiccioli. Il fatto che una università americana abbia più interesse a questo romanzo dell'intero sistema culturale e accademico italiano fa sorridere i più ottimisti e parecchio incazzare tutti gli altri.

Del libro non aggiungo altro, l'articolo di Claudio Canal ne descrive già perfettamente il senso e anche il senso di questa drammatica censura nel nostro paese.

L'ultima rifessione che mi sento di fare è, come di consueto su questo blog, relazionata al potere divulgativo o censorio che la traduzione può avere nell'accesso a informazioni alternative a quelle che le istituzioni formative ci propongono. Salman Rushdie scriveva in The Satanic Verses un "versetto" molto evocativo a riguardo del potere che il colonizzatore ha sul linguaggio:
 "They have the power of description, and we succumb to the pictures they construct"
Lo riprendo pensando che qui non è tanto la descrizione del colonizzatore a far soccombere le voci subalterne, bensì è l'assenza di una traduzione in italiano dei testi di letteratura anticoloniale a rendere una narrazione completamente inaccessibile allo stesso popolo che si è reso protagonista di quell'atroce parte di storia. In questo caso, noi non abbiamo utilizzato il nostro potere della descrizione ma sfruttato il non-tradurre come arma di repressione di un punto di vista contrapposto alla storia ufficiale.
Letteratura secondaria interessante
Ora, considerando anche quanto, al contrario di noi, letterature come quella inglese si facciano addirittura vanto della letteratura postcoloniale scritta nella propria lingua e non, mi chiedo: come possiamo fare noi, nel nostro piccolo, a divulgare una percezione della storia italiana che ancora oggi in pochi hanno il coraggio di fare emergere, ma soprattutto, fare apprezzare una letteratura bellissima e che parla di noi non sempre come gli "italiani brava gente"? Claudio Canal ha riportato sul suo blog un articolo rifiutato dai canali "ufficiali". Io scrivo un post su Claudio Canal. A mia volta so di avere tanti amici e amiche che in questo momento, con lacrime sudore e sangue, si stanno guadagnando un posto da insegnanti nelle scuole. A questi tanti vecchi compagni di università e non solo rivolgo questo appello: provate a condividere coi vostri studenti questo piccolo e intenso romanzo di Hailu, o la poesia di Rajab al-Manfi a proposito di un campo di concentramento in Libia, di cui Claudio parla anche nel suo articolo. Dato che il testo di Hailu si trova solo in tigrino o in inglese, leggerlo in inglese sarebbe anche una fantastica opportunità di CLIL (insegnamento veicolare dell'inglese) per la letteratura e la storia italiana.

E chissà, magari a qualcuno potrà finalmente saltare in mente di tradurlo in italiano, dal tigrino o anche in maniera ufficiosa dall'inglese, che sarà pure una pratica sbagliata ma se messa a servizio di una buona causa è una soluzione appoggiata anche dalle integraliste della traduzione come me.

Ovviamente lo farei io molto volentieri, se solo avessi il tempo, ma come vedete è già difficile per me riuscire a tenere un blog.


Link sparsi:


Il blog di Claudio Canal

Comprare il romanzo The Conscript

Una recensione su Academia.edu

Commenti sul sito della Ohio University Press

A place in the Sun, di Patrizia Palumbo, un buon riferimento per la letteratura coloniale Italiana, anche questo pubblicato da una università americana

giovedì 10 settembre 2015

Lingua, linguaggi e traduzione in Bastardi Senza Gloria di Quentin Tarantino



Ho rivisto recentemente uno dei miei film preferiti, Inglourious Basterds di Tarantino. Come spesso accade “alla seconda lettura” di qualsiasi opera, ho avuto modo di rendermi conto di particolari e sottigliezze che alla prima visione non erano emersi, assorbita più che altro dalla storia accattivante, dai momenti di tensione misti alla tipica ironia di Tarantino e allo splatter, dalla sua assurda capacità di realizzare un western sul nazismo, non ultimo dal fascino recitativo di un attore immenso come Christoph Waltz, mio “concittadino” viennese, nei panni del temibile e magnetico colonnello Hans “banalitàdelmale” Landa, personaggio disegnato in modo a dir poco squisito e per certi versi protagonista anche di questo post.

La seconda visione mi ha aperto un nuovo scenario, ovvero che questo film sia essenzialmente articolato attorno al tema del linguaggio, utilizzando un ampissima gamma di riferimenti a questioni di lingua e traduzione. Facendo delle ricerche su internet mi accorgo di non essere la prima ad averlo notato, e mi riferisco in particolare a questo saggio di Nolwenn Mignant. Qui mi limiterò a fare alcuni esempi con supporto video.

Tanto per cominciare, è bene dire che il film conta ben 4 lingue originali: inglese, tedesco, francese e italiano. Sebbene sia ad oggi una tendenza abbastanza affermata ad Hollywood per conferire un senso di realismo alle scene (sarebbe ridicolo pensare che tutti i personaggi parlino inglese, ma si accetta che soprattutto i personaggi più di potere come colonnelli e generali conoscano più di una lingua straniera), questo offre una serie di piani e di ricchezze di sceneggiatura che vertono spesso proprio intorno alla impossibilità di alcuni personaggi in scena di comprendere ciò che atri si dicono. E’ il caso della scena in cui l’ebrea Shosanna fa colazione insieme a Frederick Zoller. Qui il regista sceglie volutamente di non inserire i sottotitoli nelle parti in cui diverse persone si fermano a chiedere autografi e fare i complimenti all'eroe di guerra nazista in tedesco, in modo che il pubblico (che non lo parla) possa immedesimarsi nel senso di straniamento di Shosanna nel non capire il fermento intorno a Zoller, di cui non conosce le eroiche gesta, generando una genuina curiosità. Non si può che osservare linguaggi non verbali e intuire dall'entusiasmo della gente che lo riconosce che si tratta di qualcuno di famoso:



Altra scena esemplare di questo è quella di Shosanna al tavolo di Goebbels, con la presenza anche di una mediatrice-non mediatrice, che ha il potere di decidere chi includere e chi escludere dalla conversazione a suo piacimento proprio grazie alla sua capacità di tradurre.

L’incapacità di comprendere una lingua straniera, l’impossibilità di tradurre, sta anche alla base di una delle scene più terrificanti e sadiche dell’intera pellicola, guarda caso la prima. Hans Landa si reca a casa del contadino francese LaPadite, sicuro di trovare una famiglia ebrea nascosta sotto le tavole del pavimento. Con uno stupefacente colpo di genio, Hans Landa, che conosce il francese e lo parla per tutti i primi minuti della scena, finge di avere esaurito le sue capacità di conversazione nella lingua straniera e chiede al suo ospite di “switchare” in inglese. Con una magistrale dialettica tende a LaPadite un tranello psicologico che lo obbliga a confessare la presenza di ebrei in casa sua. Ciò che sfugge mentre si è coinvolti dalla scena è che quel pezzo di conversazione viene svolto in inglese proprio per fare in modo che la famiglia sotto il pavimento non capisca che il loro protettore sta confessando. L’effetto sorpresa finale, con il ritorno all'uso del francese per fingere una atroce commedia a lieto fine, ha qualcosa di magico e cattivissimo con il “je vous dis adieu” finale:




La padronanza di praticamente tutte le lingue ufficiali del film da parte di Hans Landa lo mette in una situazione dominante nei giochi di potere, dandogli la possibilità di sfruttare la lingua come affermazione del suo potere sugli altri. Padroneggiare la lingua dell'altro diventa un’arma per insinuarsi nelle sue pieghe psicologiche e sfruttarle a proprio vantaggio. Questo concetto della padronanza linguistica per creare relazioni di sudditanza, violenza e seduzione è, come già visto in precedenza, riscontrabile anche nella “relazione” tra Zoller e Shosanna o nella scena della interprete di Goebbels.

Ma conoscere 4 lingue e utilizzarle in questo modo rivela anche il fatto che Landa è un personaggio estremamente camaleontico. Il momento in cui si capisce fino a che punto sia un trasformista è alla fine, quando, dopo aver servito per anni il Führer, ormai cosciente che la guerra non finirà a loro favore, consegna il cinema dove Hitler assiste al film Stolz der Nation alle fiamme pur di patteggiare la sua salvezza con gli americani. E per accattivarseli, cerca di colpirli simpaticamente con il maldestro tentativo di usare un inglese colloquiale:



Hans Landa è in realtà solito a parecchi trasformismi, non solo linguistici ma più semiotici ad ampio spettro. Per fare un esempio, fuma generalmente ciò che fuma l’altro (la pipa con La Padite, la sigaretta con Shosanna…). Altre volte impone la sua autorità investendo l’altro con elementi della sua cultura (ordina per Shosanna uno strudel), sempre allo scopo di creare un senso di violenza e sudditanza nell'altro. 

Come Mignant molto acutamente sottolinea, Bastardi Senza Gloria è anche un film in cui gli accenti svolgono un ruolo fondamentale. Il film calca continuamente la mano sulle varianti locali e regionali rispetto a una lingua standard e sul riconoscere la provenienza di qualcuno da come parla. Tutti gli accenti sono terribilmente marcati (più di tutti quello del tenente Aldo). La scena della taverna con nazisti e bastardi allo stesso tavolo è un sublime esempio di come le sfumature del linguaggio e la capacità di tradurre e tradursi diventa il concetto che sancisce la demarcazione tra i sommersi e i salvati. In questa scena, Hicox tenta di sembrare un vero tedesco, e da un punto di vista linguistico quasi ci riesce, convincendo Hellstrom sulle sue origini (uno sperduto paesino della Germania dove "tutti parlano come lui"). Ciò che lo tradisce infatti è un’altra abilità traduttiva, ovvero la padronanza del linguaggio non verbale, anch'esso dipendente dalla lingua e cultura di provenienza e la cui traduzione è inscindibile da quella verbale. Nella scena in questione, a tradire Hicox, è il suo modo di segnare il numero 3 con le mani…



E dubito sia un caso che in questa scena i soldati giochino a un gioco puramente linguistico, basato sull'indovinare parole al buio attraverso l’inquisizione. Si può dire che l’intero film sia un gioco linguistico basato sul capire la lingua dell’altro per poter vincere.

In conclusione, lingue, linguaggi e traduzioni vengono usate da Tarantino per creare precisi schemi di potere e gerarchie. Tutto il film ruota intorno al tema di chi parla e chi potrebbe capire ciò che viene detto, e ciò viene inserito in un contesto di guerre tra popoli che diventa una battaglia tra lingue. Vince chi è più camaleontico, più capace di interpretare e tradursi nella lingua dell’altro. 

Lascio la parola finale al film stesso, a una delle sue scene più comiche, in cui ancora una volta protagonista è la competenza e l’incompetenza linguistica, ovvero, una volta morto Hicox nella taverna, cioè l’unico dei bastardi a padroneggiare bene il tedesco, deve necessariamente essere spedito Aldo alla prima del film Stolz der Nation, il quale non conosce il tedesco. Come diversivo, Aldo si finge un amico attore di Bridget siciliano, insieme a due cumpari. Ma ovviamente tutti e tre non conoscono alcuna parola neanche di italiano (osservate in particolar modo l'uso improprio della gestualità). E per l’ennesima volta, a sorpresa Landa parla anche italiano ed è lui che ne esce vincitore:


lunedì 18 maggio 2015

Sono andata al Salone del Libro e ho un'opinione a riguardo

Si è appena conclusa per me l'obbligatoria tappa, quasi una iniziazione visto che è la mia prima volta, al Salone del Libro di Torino. Imperdibile per me, visto che il paese ospite d'onore è la Germania. Sono appena tornata a casa, dopo una doccia rigenerante e con il portafogli svuotato. Svanita l'eccitazione adrenalinica che segue normalmente all'acquisto compulsivo di cose piacevoli, mi resta a mente fredda una sola parola chiave per descrivere la mia esperienza a quello che è il più importante evento editoriale in Italia: frustrazione. E vi spiego il perché.


E' un week end di maggio, a Torino ci sono trenta gradi da settimane. Quasi ogni week end li passiamo ormai al lago o in montagna, lontani dall'afa della città. Ma questo week end no, si va alla fiera del libro! Ma non sarà un vero peccato, sprecare una giornata di sole per andarsi a chiudere in quella immensa tristezza che è il Lingotto Fiere? Domande che ci assillano da settimane, me e la mia amica Alice, fedele compagna del tempo libero. Da così tante settimane che alla fine ci riduciamo a decidere il venerdì. Ok, dai, non si può non andare, andiamo. Inizio a guardare il programma online e scopro che è di una fruibilità pessima: troppi, davvero troppi eventi, mille nomi di sale e spazi conferenza e la sensazione che non ci puoi star dietro. E' troppo tardi per iscriversi ai numerosi workshop, alcuni di traduzione che mi sarebbero molto piaciuti. Gli eventi proposti un giorno, diciamo il giovedì, non sono ripetuti nel fine settimana, quindi o sei un fancazzista che non lavora di giovedì o quell'autore te lo sei perso. Pazienza, sabato e domenica ci sono decisamente cose di alto livello. E qui la seconda sorpresa: il biglietto di ingresso è valido per solo un giorno. Se vuoi entrare sia il sabato sia la domenica insomma, dovrai pagare due ingressi. Vabbè. Andiamo la domenica, perchè ci sono tre eventi interessanti: una speech su delle traduzioni di Musil, Zygmut Bauman e Travaglio.

All'ingresso sborsiamo i primi 9 euro della giornata (lo sconto per possessori di Abbonamento Musei Piemonte è di ben 1 euro). Perché mai mi facciano pagare un ingresso per entrare a una mostra-mercato, un mistero. Devo pagare per spendere, un abominio contro cui mi batto da anni. Io ho tutto sommato un potere d'acquisto che me lo permette, ma penso ad un ragazzino di 15 anni con 10 euro in tasca, che avrebbe potuto entrare gratis e uscire con un libro da 10 euro. Arricchito nell'anima. E invece no, quei 10 euro li deve pagare per entrare (o meglio non li pagherà e non entrerà).

Prima della mostra-mercato, l'interesse primario sono gli incontri. Una mezz'oretta solo per raccattare mappa, programma cartaceo e trovare le indicazioni per le sale degli incontri importanti. Arriviamo alla sala dell'incontro con Bauman, c'è coda, tanta coda. Dopo 10 minuti una simpatica signorina ci informa che “lasciate ogni speranza”, la sala è piena e non faranno entrare più nessuno. Era l'incontro per cui i 9 euro di biglietto, per me, avevano un senso. Ma c'è troppa gente. “Se volete abbiamo degli schermi qui accanto per seguire la conferenza dall'esterno”. Mi avvicino, poco più di 30 pollici di schermo e 50 persone intorno, senza sedie. Non si vede e non si sente nulla. “Se volete farvi firmare una copia abbiamo lo stand qui fuori quando finisce la conferenza”. Io e la mia bella copia di Amore Liquido lasciamo perdere, lo stand è al sole e pieno di gente. Pazienza, Bauman arriva l'estate e lo trovi a qualsiasi evento italiano fino alla sagra della zampina di Sammichele. Dal manuale: come scroccare vacanze in Italia se sei un intellettuale.

Buttiamoci nella mostra-mercato. Tre signore e signori tre padiglioni enormi, centinaia di espositori. Mi gira la testa dopo 10 minuti. Si chiama information overload e di solito mi colpisce dopo qualche ora in un museo. E c'è così tanta roba desiderabile che penso che a quel punto è meglio non comprare nulla. Ma è bugia, già lo so.

Presto i padiglioni si mostrano deludenti: gli stand più grossi li hanno i grandi editori: Feltrinelli, Mondadori, Giunti, Rizzoli, Einaudi, che hanno allestito all'interno della fiera veri e propri NEGOZI, sembrano delle enormi filiali dei loro punti vendita in città. Se voglio un libro Feltrinelli, forse è meglio che vada a comprarlo alla Feltrinelli in una mattinata tranquilla! Ma qui c'è l'inghippo: tutti gli espositori hanno offerte allucinanti tipo sconti al 50% o 3x2. Ok, eccezionale, ma mi sembra comunque una cretinata passare la mia domenica in una Feltrinelli dentro una fiera al chiuso a sgomitare con le persone. Passo oltre.

Nel padiglione 2 c'è un enorme stand del Goethe Institut. Finalmente qualcosa di realmente degno! Hanno scaffalate ricche di volumi, tutti di autori tedeschi, in tedesco, di editori tedeschi, fumetti, romanzi, poesia, saggistica. Sono in paradiso. Trovo un volume, si chiama Tanz der Tarantel di Kirsten Wulf, è un giallo tedesco (i cosiddetti Krimi) ambientato in Puglia... non posso non comprarlo! Lo afferro e mi dirigo vittoriosa e trionfante allo sportello dello stand, poggio il libro. Una tipa mi guarda interrogativa “serve qualcosa?” “ehm, sì, vorrei comprare questo...” “ah ma guardi che i libri in questo stand non sono in vendita, solo di esposizione”



Cioè mi state dicendo che avete centinaia di volumi introvabili in Italia solo per farmi rosicare? O ancora peggio, per farmi fotografare il codice a barre e andarlo ad acquistare dal nemico giurato delle fiere del libro di tutto il mondo, Amazon? “Se vuole può provare allo stand della Luxembourg qui accanto”. Vado. Lo stand più piccolo e disordinato della storia. Il peggiore della giornata. Ovviamente dei centinaia di volumi spettacolari esibiti a puro scopo espositivo del Goethe, nessuno era presente alla Luxembourg in vendita.

Proseguo, incazzata come una iena. Alice ci abbandona alla volta della conferenza su Musil. Al ritorno ci racconta un po' delusa che per quanto la speech sia stata interessante, i professori sono tutti scappati via con le loro valige una volta finito di parlare, senza dare la possibilità di fare domande.

Nel frattempo mi aggiro ormai in uno stato comatoso tra le bancarelle, tra caldo e folla (neanche esagerata, forse a causa del tempo estivo). Ho finalmente trovato uno stand che mi attira: è quello di MagicPress con Feudalesimo e Libertà e la loro prima pubblicazione, l'Inferno di Dante. Ci sono persino loro a fare firma, dedica e gogna a chi acquista il libro. Bravi, simpatici e divertenti, si meritano i miei primi soldi.

E' quasi l'ora di Travaglio, avviciniamoci alla sala Gialla. La folla, che per Bauman era di poche decine di persone in eccedenza, questa volta si estende per almeno 100 metri. Ci allontaniamo prima ancora di formulare anche solo un pensiero favorevole al tentativo di mettersi in attesa. Ennesimo evento degno di nota inaccessibile per l'inadeguatezza della struttura.


In un'altra saletta, sperduta tra le bancarelle, si presenta il libro su Morgan. Un cartello a caratteri cubitali si scusa della assenza del cantante alla presentazione. Passiamo oltre.

Gli stand di editori per l'infanzia hanno di sicuro le proposte più carine, tra cui splendidi libri di fiabe popolari d'Italia illustrati. Se avessi un nipotino, si meriterebbero i miei soldi.

Splendida conferma anche gli editori di fumetti, che invitano autori per le dediche sui volumi, si scambiano chiacchiere, sorrisi e complimenti. Si fanno ottimi sconti.

Sulle sedioline per Gramellini e Pupi Avati (che non si sono meritati una speech in una sala chiusa ma in mezzo al caos della mostra-mercato) c'è tanta di quella gente che si dovrebbe ascoltare la speech in piedi, ma con tutta quella confusione e sistemi di amplificazione non proprio eccelsi, fuori dal raggio delle postazioni a sedere si sente poco. Oltre al fatto che, dopo ore di cammino tra i padiglioni, se il mio span di attenzione da seduta è già pessimo, da in piedi è livello pesce rosso. Andiamo avanti.

Lo stand del Cicap, l'organizzazione scientifica di Piero Angela, ha esaurito le copie del loro libro sulla Torino misteriosa, e si sbatte un sacco quindi a promuovere i loro splendidi tour della Torino magica (che propone attenzione anche una spiegazione scientifica alla cosa, non come quei faziosi gomblottisti della concorrenza!).

Ci aggiriamo tra i piccoli editori indipendenti, dove trovo l'approccio migliore a questa fiera. Alcuni stand propongono pochissimi libri, ma dietro il bancone una persona che li ha letti e che conosce bene il movimento artistico e ti spiega tutto, per filo e per segno. Si meritano i nostri soldi.

Alcuni stand sono così eleganti e seriosi che ti senti in imbarazzo. Per fortuna un giovane in giacca e cravatta della Treccani ci invita a toccare questi preziosissimi volumi, perché “i libri sono fatti per essere toccati”. Una signora gli risponde che quei libri sembrano così preziosi da sembrare intoccabili e ha ragione, non solo dal punto di vista tattile. Altri stand sono così noiosi da sembrare ridicoli (la polizia? La banca d'Italia?)

Io e Alice ci avviciniamo con gridolini di eccitazione allo stand dell'Istituto Italiano di Studi Germanici. Il ragazzo dietro il bancone ci accoglie col calore di chi vede per la prima volta qualcuno avvicinarsi con tale entusiasmo. Hanno delle belle idee, tra cui quello di rendere tutto disponibile online gratis. E sì, si meritano i nostri soldi. E evidentemente per loro è un evento così raro che ci regalano mezzo stand in gadget, e ci allontaniamo esibendo orgogliose la shopper "griffata". Roba da germanisti.

A questo punto capisco che tentare di vedere tutti gli stand mi procurerebbe solo un pesante mal di testa e gambe gonfie come zampogne a fine serata. Sono esausta. Cerco sulla mappa lo stand della Tunuè, una casa editrice che conosco da tempo e adoro. Senza pensarci troppo chiacchiero, mi faccio consigliare e spendo. Compro un volume a fumetti su Sostiene Pereira. Il ragazzo al banco mi fa “ma non riesci a passare domani? Domani mattina viene l'autore per autografare i volumi....”.

Mi piacerebbe, caro amico, ma questo sistema mi imporrebbe di pagare nuovamente il biglietto d'ingresso. Ennesima occasione sprecata della mia spedizione. Ennesima frustrazione e amaro in bocca.

Devo parlare di cosa mi è davvero piaciuto? Lo stand della Puglia: programma fittissimo e interessante e una esposizione di gran gusto e livello, esteticamente impeccabile. Il padiglione sopraelevato del turismo Piemonte, dove oltre ad aver trovato le uniche sedute libere dell'intera fiera, facevano assaggiare gratis la MoleCola, la Coca Cola alternativa di Torino (per chi qui ci vive non una grande novità, per gli estranei una vera attrazione). Lo stand di IBS.it, con pochi libri e molti Tolino. Un sacco di bei ragazzi negli stand.

L'episodio-emblema della mia opinione su questo Salone riguarda dei ragazzi della mia età che, volantini alla mano, cercavano a tutti i costi di sponsorizzare una scuola di tecniche di apprendimento e lettura veloce sostenendo che fosse possibile imparare perfettamente il tedesco in due mesi. Ho ripensato a quel punto ai miei 13 anni di studio matto e disperatissimo, ai numerosi soggiorni all'estero e tuttavia a quella socratica sensazione di non sapere ancora nulla, e la mia risposta è stata "ti ringrazio, ma io sono a favore di una lettura lenta e faticosissima".

Insomma, la parola chiave del Salone del Libro è frustrazione perché tra le folle, le code, gli eventi inaccessibili e il caldo infernale hai la sensazione di essere entrato e di esserti perso, e di aver perso tutto ciò che c'era di veramente bello. E forse di esserti anche perso la bellissima giornata fuori. Perché qui conta il consumo. La cultura è merce, non più un bene. Che sommata a una focaccia e una birra in fiera per sopravvivere a questa giornata fanno 70 euro, andandoci leggeri.

sabato 28 febbraio 2015

Through The Language DRESS

Come la cultura e la lingua influenzano la percezione dei colori

Da un paio di giorni sta facendo impazzire la rete la strana illusione ottica di un vestito arabeggiante che alcuni vedono bianco e oro altri blu e nero. Questa storia del vestito che cambia colore in base a come il nostro cervello percepisce e cattura la luce della foto è sicuramente già nota a tutti. Sono state date numerose spiegazioni, in vari giornali e riviste scientifiche, ma la questione resta ciononostante quasi qualcosa al di là della nostra comprensione, misteriosa e inquietante nella sua apparente illogicità.


Questo episodio mi ha dato lo spunto per riflettere non tanto su questioni biologico-scientifiche legate alla percezione (di cui son pieni altri blog al momento, tra l'altro), ma piuttosto, come da tradizione del blog, su alcuni aspetti psico- e neurolinguistici legati alla percezione dei colori. La riflessione sulla evidente relatività dei colori e della percezione mi ha riportato infatti alla mente un libro che ho letto diversi anni fa, un saggio del linguista inglese Guy Deutscher dal titolo Through the language glass, how words colour our world (in Italia “La lingua colora il mondo. Come le parole deformano la realtà” edito da Bollati Boringhieri, 2013). Questa lettura mi risulta estremamente pertinente con l'episodio protagonista di questi giorni in quanto, se quest'ultimo dimostra la relatività della percezione dei colori in base a caratteristiche fisiche e biologiche dei nostri neuroni, Guy Deutscher dedica ampie parti del suo testo a dimostrarci come e con quanta potenza la nostra percezione dei colori sia influenzata da fattori culturali e linguistici.

Il punto di partenza della sua riflessione è una frase dell'Iliade in cui Omero definisce il mare “color del vino”. Cosa può portare un uomo come noi a definire il mare rosso, quando le nostre convinzioni più ancestrali sembrano dirci che il mare è indiscutibilmente blu? L'esempio può essere ritrovato in quasi tutta la letteratura antica, dove la tavolozza dei colori è decisamente più scarsa di quella moderna ma in cui è soprattutto il colore blu il grande assente.

Guy Deutscher prende la questione ripercorrendo storicamente le teorie dei colori più famose. In prima istanza, vi era la convinzione che questa assenza fosse da imputarsi al fatto che l'occhio umano fosse ancora a uno stato primordiale, in cui alcune tinte erano precluse alla nostra percezione. Man mano che l'uomo progredisce, l'evoluzione e il progresso tecnico gli permettono di lavorare con tinte sempre più variegate e di conseguenza di “allenare” il proprio occhio a visioni coloristiche sempre più complesse.

A smontare questa teoria arriva, a sorpresa, il darwinismo. Gran parte di noi ha infatti una visione distorta della teoria evolutiva. Il tipico esempio che ci hanno fatto da bambini che “la giraffa, a furia di allungare il collo per prendere le foglie sempre più in alto, abbia teso a sviluppare un collo sempre più lungo” è del tutto errato e fuorviante. Pensateci bene: se noi tagliamo la coda a 15 generazioni di ratti consecutivamente, la 16a generazione continuerà a crescere con la coda intatta. Le modifiche che noi effettuiamo sul nostro corpo mentre siamo in vita non influiscono sulle caratteristiche genetiche della nostra prole, il nostro DNA resta invariato. Quello che succede nel caso della giraffa è che su mille giraffe con un collo normale una e una sola, frutto di uno scherzo della natura, di una deformazione genetica, sia cresciuta accidentalmente con un collo più lungo del normale. E si dà il caso che quella, molto meglio delle sue amiche normodotate, sia riuscita a sopravvivere in situazioni di carestia e condizioni ostili grazie alla sua capacità di attingere a riserve di cibo a cui le altre non arrivavano, decretando la morte di queste ultime. Solo chi sopravvive procrea, e chi procrea decreta la nuova linea genetica dominante.

Non si può quindi affermare che l'uomo abbia lentamente sviluppato una capacità di vedere il blu, o comunque non si può affermare con certezza che a un certo punto della storia chi fosse capace di distinguere il blu fosse in qualche modo avvantaggiato rispetto ai suoi compagni tanto da garantirgli la sopravvivenza più rispetto agli altri. Altri teorici, detti culturalisti hanno pensato quindi che la causa dell'assenza di alcuni colori dalla gamma cromatica fosse da imputare non più a una incapacità fisica quanto a una culturale. Culture più primitive tenderanno quindi ad avere meno concetti, tra cui anche meno concetti coloristici. Anche questa teoria diventa però estremamente restrittiva nel senso opposto. Non esistono infatti culture che siano intrinsecamente incapaci di esprimere dei concetti linguisticamente.

Cosa diavolo succede allora con il nostro benedetto colore blu?

Una delle risposte possibili è: per lungo tempo non abbiamo sviluppato il concetto di blu perché gli elementi che in natura possono definirsi davvero di questo colore che l'uomo ha dovuto adoperare attivamente per la sua sopravvivenza sono praticamente inesistenti. I primi colori registrati nella storia delle nostre lingue sono infatti (oltre alle due grandi categorie di bianco e nero) colori legati alla commestibilità degli elementi della natura: rosso e giallo. Che sono anche tra i colori più diffusi della natura. Il blu è giunto molto più tardi, e precisamente in concomitanza con progressi tecnici che permettevano l'utilizzo del pigmento blu per la realizzazione di oggetti. Quando l'uomo ha quindi potuto veramente adoperare quel colore. Il colore blu semplicemente non esisteva linguisticamente perché non ne avevamo bisogno.

Molti di voi obietteranno: ma come, due degli elementi più vasti della natura possono definirsi blu: il cielo e il mare. Beh, con una serie di esempi ed esperimenti molto interessanti, Deutscher ci dimostra come la percezione di questi due elementi come blu è fortemente influenzata dalle categorie e schemi imposti durante l'educazione. In pratica: lo vediamo blu perché ci insegnano che lo è. Deutscher arriva al punto di utilizzare sua figlia come cavia, non raccontandole mai per i primi 4 anni della sua vita del colore del cielo o del mare e celandole ogni possibilità di saperlo da fonti esterne. Alla domanda improvvisa del padre a quel punto “di che colore è il cielo?” la bambina era confusa, e ha dato come risposta “grigio” (capisco che siamo in Inghilterra però...). Quello a cui Deutscher vuole arrivare è che appunto il cielo non ha un colore così ben definito come crediamo, che la nostra percezione è quindi alterata dalle nostre certezze culturali. Il mare invece, tende a riflettere le condizioni del cielo o altre proprietà dell'acqua, che di base è trasparente.



Nella seconda parte del libro, il linguista inglese ci porta esempi di esperimenti in cui persone di culture diverse hanno una percezione diversa delle linee di demarcazione tra i colori: ciò che un inglese definirebbe blu, un maori lo definirebbe verde, ciò che io direi con certezza verde, per un inuit è blu (qui se volete approfondire la questione della distinzione tra blu e verde in varie culture). In pratica, la lingua che utilizziamo per comunicare ci porta, per ragioni storiche o sociali, a riflettere su alcune sfumature di colore in una maniera differente da altre culture. Se una lingua ha due parole differenti per definire due tonalità, il nostro cervello sarà naturalmente inclinato a riflettere maggiormente su quelle due sfumature, a prestarvi attenzione e quindi a distinguerle maggiormente da una lingua che le assimila nella stessa gamma. In particolare, test neurolinguistici in cui veniva chiesto di associare un colore a una categoria hanno dimostrato che i tempi di risposta del nostro cervello rallentano notevolmente quando abbiamo a che fare con tinte per cui la nostra lingua non ha una parola. Molto utile la sezione di immagini del libro con lo spettro di colori categorizzato in varie culture.

In conclusione, questo testo scritto in maniera incredibilmente avvincente ci dimostra che c'è una strettissima relazione tra i colori che una persona sa o può nominare e quelli che questi sarà effettivamente capace di vedere. Se il caso del vestito bianco e oro ci ha dimostrato quanto il nostro occhio e i nostri neuroni influenzino la nostra percezione, questo libro ci dice moltissimo su come anche la lingua che utilizziamo agisca da filtro della realtà.


Per approfondire:

Guy Deutscher, acquista i suoi libri
Il sito ufficiale di Guy Deutscher
Sulla relatività linguistica e dibattito sul nome dei colori (Wikipedia, in inglese)


lunedì 22 dicembre 2014

Tre cose che ho imparato da una cattiva pratica traduttiva

Nei miei ultimi anni di lavoro come traduttrice e proofreader mi sono ritrovata piuttosto spesso alle prese con revisioni e traduzioni di testi, articoli scientifici, videogiochi, applicazioni, di studenti, ricercatori, professori, sviluppatori indipendenti, negli ambiti più disparati, dall’informatica alla semiotica (ma in tempi più recenti soprattutto di quest’ultima). Ogni qual volta mi si chiede un lavoro del genere, tendo sempre a puntualizzare, con quella frasetta che tanto mi hanno inculcato all’università, che “una buona pratica traduttiva consiste nel tradurre dalla lingua straniera che si conosce alla propria madrelingua”. Per intenderci, il messaggio che passa quando rispondo a queste richieste è spesso stato “non sono d’accordo, ma lo faccio lo stesso se mi paghi bene”. Per non parlare del fatto che tradurre verso la propria lingua straniera comporta una serie di ricerche di lessico e forme espressive di cui si ha relativamente meno bisogno quando si traduce verso la propria madrelingua. A cui aggiungo i mille dubbi che mi attanagliano facendomi perdere alle volte anche un’ora del mio tempo per restituire un lavoro ben fatto senza insicurezze: io, in particolar modo, ho il terrore delle collocation inesatte. Ciò mi porta a ricercare ogni minima locuzione che scrivo in dizionari, tesauri e corpora paralleli per confermare a me stessa che la locuzione da me pensata sia sufficientemente attestata in testi originali.  Detto in soldoni: ci lavoro il triplo per riuscire a tradurre correttamente, per circa lo stesso prezzo di una traduzione verso l’italiano.
Inizialmente, avevo il terrore per questa cattiva pratica traduttiva, oltre al senso di colpa di stare “prendendo in giro” la persona che mi commissionava la traduzione, perché a me, che per tutta la vita non ho fatto che studiare le lingue straniere nei baluardi del sapere tradizionale, che in quei baluardi le ho imparate con lacrime e sangue per raggiungere un livello che colmasse il mio rifiuto per l’Erasmus, mi hanno sempre insegnato che no, non si fa, è sbagliato. Levatelo dalla testa, si traduce sempre e solo verso l’italiano e chi non fa così è un truffatore. Oggi, alla luce di tutte le esperienze che ho avuto in questa direzione (e devo dire quasi tutte le mie esperienze traduttive sono state verso l’inglese o il tedesco), ho ragione di credere il contrario. Ho l’impressione che la traduzione verso le mie lingue straniere, per quanto imperfetta, possa avermi insegnato molto più delle lingue straniere e anche della mia lingua di qualsiasi traduzione verso l’italiano. E vorrei riassumere in un paio di punti il perché:


1) C’è assai più lavoro, in Italia, per traduzioni verso lingue straniere che viceversa. Ciò che normalmente vuole la gente che ti chiede una traduzione di questo tipo è molto semplice: che il proprio “prodotto” abbia risonanza internazionale. E in Italia serve come il pane. Dallo sbarbatello che ha fatto un bel videogioco e ha bisogno di tradurlo in inglese per poterlo mettere sull’AppStore e poter farlo giocare in tutto il mondo, al professore che vuole sottoporre un paper per una conferenza internazionale, alla ditta di taralli pugliesi che vuole farsi il sito in inglese, c’è molto più bisogno, e non lo dico solo per una questione economica ma anche etica e di valorizzazione del territorio, di una traduzione verso l’inglese che il contrario. A meno che tu non abbia la fortuna di lavorare per Internazionale, per un quotidiano o per una casa editrice, le traduzioni verso l’italiano non sono una realtà in Italia. E se tu sei un italiano, e ritieni di essere assai più bravo di ciò che c’è in giro, diventa un tuo diritto ma forse anche un tuo dovere morale fare il traduttore verso lingue straniere. Perché tanto, inglesi madrelingua a Bari non ce ne sono, se poi la traduzione la devono affidare a uno che scrive un cartello a caratteri cubitali nella mia città WELCOME IN BARI (e non è un esempio inventato), tanto vale che mi metto a tradurre io verso l’inglese, che forse è meglio.

2) In qualche modo resto sempre convinta che sia tutto sommato sbagliato, ma è una questione di priorità. Tradurre verso la propria madrelingua è ritenuto meglio perché la capacità espressiva di un madrelingua porta alla stesura di testi perfetti e impeccabili (o così si spera, ma non ne sono neanche tanto convinta visto i linguisti mediocri che vedo in giro). Sacrosanto, per carità. Questo modo di pensare però implica che la capacità espressiva abbia una qualche importanza superiore rispetto alla capacità interpretativa che può avere un madrelingua verso il testo scritto in lingua straniera. Lo spiego meglio: è più importante restituire un testo di arrivo perfetto che interpretare perfettamente il testo di partenza. Se io traduco dall’inglese all’italiano, restituirò sicuramente un testo in un italiano perfetto, ma che però potrebbe essere una cattiva interpretazione del testo inglese in quanto, non essendo una madrelingua inglese, potrebbero sfuggirmi tante piccole sfumature di significato, allusioni, metafore, giochi di parole, che da non madrelingua potrei non cogliere in tutta la loro interezza. L’importante è che io produca un testo di arrivo pulito, ma di quanto il traduttore stia tradendo l’originale (va bene, cado ancora una volta nel detto traduttore traditore!), fondamentalmente non frega nulla a nessuno, tanto meno al lettore finale. Tuttavia potrebbe essere alle volte più importante interpretare correttamente il testo di partenza, coglierne nel profondo tutte le complessità. È il caso delle  mie traduzioni di articoli di semiotica, dove la terminologia è di fondamentale importanza. “Mi fai delle domande che i traduttori madrelingua inglesi non fanno”, mi diceva un professore con cui ho collaborato. Un mio amico mi ha ripetuto “un traduttore inglese cercherebbe di sbrogliare la matassa della densità semantica del testo, appiattendolo”. E lo so bene, ai semiotici italiani poco piace che la matassa venga sbrogliata!  :)

3) Se si tratta di paper per conferenze, applicazioni e altri prodotti internazionali, il madrelingua non è poi così fondamentale. Si chiama International English ed è ormai una lingua a sé stante, completamente diversa dall’inglese standard. E paper accademici e prodotti per il web sono spesso scritti in questo nuovo codice, l’inglese come lingua franca, parlata da non madrelingua per non madrelingua. Un londinese potrebbe storcere il naso a testi scritti in questo idioma, ma l’International English risulta più comprensibile dello standard English negli ambienti internazionali, dove il vasto pubblico di non parlanti (e mal-parlanti) la fa da padrone. L’attenzione è più forte a un lessico chiaro e comprensibile, alle volte con tantissimi neologismi coniati. La sintassi è più povera, talvolta meno talvolta più contratta di quella originale, ovvero: alle volte si abusa eccessivamente della aggettivazione e del genitivo sassone inglese, alle volte si eccede in uno sproloquio di “of” ripetitivi. Gli hyphen sono ormai un ricordo lontano nell’International English (i trattini che uniscono due elementi lessicali trasformandoli in un'unica unità sintattico-grammaticale, come a three-year-old girl), la confusione tra l’uso dei due punti e quello del dash (il trattino lungo) è una costante. Insomma, sia a livello lessicale ma soprattutto a livello sintattico l’International English ha poco a che fare con lo standard di questa lingua. E ritengo che un non madrelingua sia per ovvie ragioni più adatto a scrivere testi in International English.
Per sapere qualcosa di più sul concetto di International English, la pagina inglese di Wikipedia offre una spiegazione breve ma abbastanza chiara.

Mi piacerebbe il confronto con altri traduttori sull'argomento, so che sto scrivendo qualcosa di fortemente impopolare e vorrei sapere se ci sono altre persone che hanno voglia di “uscire dal coro” come me.


sabato 14 giugno 2014

Mondiali 2014… quanti anglicismi!

Tackle, pressing, assist... ma perché tutte queste parole straniere nel linguaggio dello sport?


Il mondiale Brasile 2014 è iniziato da qualche giorno e stasera c’è il debutto della nostra squadra nazionale in Italia-Inghilterra. Questo match mi ha interessato più che dal punto di vista sportivo per il collegamento mentale scattato in me (deformazione professionale?) con una problematica di carattere linguistico: ma perché diavolo il linguaggio del calcio è così pieno di parole inglesi?

Iniziamo col dire che le “parole straniere” utilizzate in un’altra lingua si definiscono in italiano forestierismi. Di forestierismi sono spesso zeppi i linguaggi specialistici (LSP). Il linguaggio del calcio rientra appunto in questo gruppo di LSP, ovvero un linguaggio caratterizzato da un grosso lessico tecnico utilizzato solo in un determinato contesto e condiviso tra una comunità di parlanti che non rappresenta la totalità della popolazione. Una interessante riflessione su quale è nello specifico il linguaggio specialistico dello sport ce la offre Fabio Rossi nel suo intervento “La lingua nello Sport”, pubblicato nell’articolo Sport e comunicazione nella società moderna sul sito della Treccani:

Nella sua triplice accezione di 'lingua dei giornalisti sportivi', 'insieme dei termini tecnici dei vari sport' e 'lingua, scritta e parlata, dei tifosi', mantiene una sua piena riconoscibilità e specificità non soltanto lessicale.

E’ difficile tuttavia che i parlanti italiani lo riconoscano a pieno come un linguaggio specialistico (si pensi al confronto con il lessico medico o informatico). A tal proposito continua Fabio Rossi:

A differenza di altre lingue speciali (per es. quelle dell'economia, dell'informatica o della medicina), invece, quella sportiva non si presta agevolmente alla distinzione tra livello specialistico e livello divulgativo.

Questo è dovuto al fatto che in Italia il calcio è così nazionalpopolare da far sembrare il suo lessico del tutto ordinario. Ma è dovuto soprattutto alla preponderanza che questo sport ha nei media e nella comunicazione italiana. E’ stato studiato che circa il 40% delle produzioni televisive, giornalistiche e radiofoniche italiane sono infatti incentrate sullo sport, in particolare sul calcio. E si pensi quanto ormai il mondo dell’informazione anche non sportiva attinga continuamente al lessico sportivo per creare titoli coinvolgenti e ad effetto.

Ma uscendo da questa parentesi di analisi del discorso e tornando alla questione linguistica. I modi in cui una parola straniera entra nella propria lingua possono essere molteplici e, sintetizzando molto, si distinguono in prestiti e calchi.

1. I prestiti sono parole che vengono introdotte nella lingua prendendole da altre lingue. Possono essere non integrati - le parole straniere in senso stretto, come hamburger, hot dog, rugby; o integrati – ovvero, che subiscono un adattamento fonetico e ortografico alla lingua di arrivo, rendendoli praticamente indistinguibili da una parola italiana. Ne è un esempio la parola bistecca, prestito dall'inglese beef steak (l’avreste mai detto che si tratta di un prestito infatti?), o la parola sciare, proveniente dal norvegese ski (che si pronuncia appunto sci in norvegese).
2. I calchi linguistici sono trasposizioni letterali di una espressione straniera nella lingua di arrivo. Ne sono esempi grattacielo (da skyscraper) o nell’ambito sportivo, pallacanestro (da basketball).

Per quanto concerne il lessico del calcio, si tratta per gran parte di prestiti più o meno integrati (si pensi a crossare e dribblare, che vengono integrati all’italiano dal punto di vista grammaticale). Ma la domanda che tutti si staranno ponendo è perché proprio dall’inglese? Una spiegazione concisa ci viene ancora una volta da Fabio Rossi:

Gran parte degli sport oggi praticati entra in Italia dalla Francia o dall'Inghilterra nell'ultimo decennio del 19° secolo, portando dunque con sé un ricco contingente di prestiti di necessità. Anche gli sport praticati in Italia fin dai secoli precedenti vengono rilanciati o riorganizzati da noi sul modello, anche linguistico, inglese (ippica, calcio). Lo sport diventa pertanto, alle soglie del Novecento, uno dei principali serbatoi di forestierismi e, successivamente, una delle prime fonti di arricchimento del nostro lessico tradizionale. Lo stesso anglicismo sport (d'origine francese: desport).


A questa curiosità storica mi permetto di aggiungere che l’enorme successo degli anglicismi nello sport ha a mio parere anche un legame fortissimo con il sopracitato predominio giornalistico. Le parole inglesi hanno un grandissimo vantaggio e cioè sono brevi, una caratteristica che sicuramente fa comodo al giornalista per impaginare titoli ad effetto o al telecronista per aumentare il suo rapporto parole al secondo.
Ma veniamo a una analisi di quali sono le parole inglesi più gettonate nel calcio italiano (qui ci aiuta gentilmente Wikipedia). Ove possibile, tenteremo di dare una alternativa in italiano al forestierismo, non perché ci piace il purismo linguistico di stampo fascista ma solo a titolo informativo.

Assist: passaggio di un giocatore ad un altro con successivo gol del giocatore che ha ricevuto il passaggio. In inglese vuol dire appunto assistere. Variante italiana: rifinitura.
Bomber: significa bombardiere e si riferisce a un attaccate particolarmente prolifico di gol. Variante italiana: cannoniere, traduzione letterale di "bomber", la cui introduzione risale al fascismo.
Cross: tipo di passaggio, solitamente da posizione laterale in cui la palla viene alzata da terra per consentire all'attaccante di deviarla verso la porta. In inglese significa incrociare, si riferisce proprio al fatto che la traiettoria della palla è perpendicolare a quella dell’attaccante. Variante italiana: traversone.
Corner: significa semplicemente angolo, ma designa, in italiano, il calcio che si effettua posizionando la palla all’angolo del campo. In inglese questo si chiama corner kick. Variante italiana: calcio d’angolo.
Dribbling: (o dribblare)  gesto tecnico consistente nel superare l'avversario con la palla al piede grazie ad una rapida mossa atta a disorientarlo. Il termine deriva dal verbo inglese to dribble che indica la direzione rapida, imprevista ed incontrollata della bava di una persona o di un animale (lo so, fa schifo), paragonata al movimento del calciatore che effettua il dribbling. Variante italiana: scartare.
Fair play: comportamento rispettoso nei confronti degli avversari nell'ambito delle competizioni sportive. Non è perfettamente traducibile in italiano, letteralmente significa gioco corretto, da intendersi come lealtà. Il termine è una parola d'autore dovuta a William Shakespeare, che lo coniò in Troilo e Cressida, del 1601.
Goal: è uno di quegli esempi di prestito oserei dire semi-integrato. In italiano è infatti stato riadattato ortograficamente in gol ed è perfettamente corretto scrivere la parola in entrambe le maniere. L’origine inglese rimane tuttavia abbastanza percettibile. In inglese vuol dire obiettivo, meta. Variante italiana: rete.
Pressing: da press, fare/esercitare pressione, è la tattica di gioco che prevede il disturbo costante verso il portatore di palla da parte di avversari, al fine di prevenire passaggi e recuperare palla. Variante italiana: non trovata, se non traducendo letteralmente.
Tackle: (erroneamente pronunciato techel) significa placcare, contrastare, affrontare e indica un contrasto tra due giocatori per la conquista del pallone. Variante italiana: contrasto per il calcio, placcaggio per il football americano e rugby.
Tunnel: significa galleria ed  è il gesto tecnico consistente nel far passare la palla fra le gambe di un avversario (come all’interno di una galleria appunto). Nessuna variante in italiano nella sua accezione calcistica.
Turn over: rotazione strategica degli elementi della squadra tra le varie partite al fine di dosare le forze ed limitare gli affaticamenti degli atleti. Significa appunto rotazione, ricambio in inglese. Nessuna variante in italiano nella sua accezione calcistica.

Un paio di parole ci sono state invece gentilmente regalate dallo spagnolo, o meglio dal Sudamerica patria di questo sport: goleador (nel senso di bomber) e golazo (in italiano integrato a gollazzo, specie nel sud Italia), termine coniato dai giornalisti sudamericani per definire un gol estremamente bello.

Alcune parole italiane invece sono praticamente intraducibili in altre lingue, tra queste:

Catenaccio: modulo tattico che si caratterizza per una spiccata attitudine difensiva. E’ una parola importante perché è uno dei pochi termini sportivi in italiano a essere stato prestato ad altre lingue, perché schema molto tipico adottato dalla nazionale italiana nelle competizioni internazionali. Ma nonostante il nome italiano con cui è ormai noto internazionalmente, il catenaccio ebbe le sue origini negli anni trenta in Svizzera, per iniziativa del tecnico austriaco Karl Rappan (1905-1996). Egli propose per la prima volta il catenaccio nel 1932 quando sedeva sulla panchina del Servette.
Zona Cesarini: deriva da Renato Cesarini, attaccante degli anni Trenta che spesso segnò gol anche importanti nel corso degli ultimi minuti di gara; il termine è quindi largamente utilizzato per definire un gol segnato, appunto, allo scadere del tempo di gioco. Questo termine è impregnato di cultura italiana e dunque non è stato esportato.


Ma esistono nel mondo del calcio anche italiani celebri, che con le loro gaffe linguistiche sono stati capaci di coniare espressioni che sono diventate persino accettate e normalizzate nella lingua straniera. Uno di questi è il mitico Trapattoni con il suo “ich habe fertig” (“ho finito”) alla fine dell’epica conferenza stampa del 14 Marzo 1998, errore in tedesco per l’uso del verbo avere (in tedesco dicono “ich bin fertig”, col verbo essere). Ich habe fertig è diventato un vero tormentone e variante assolutamente consentita in chiave scherzosa.